Intervista a Tommaso Deserti, country manager DICE

Siamo in compagnia di Tommaso Deserti Country Manager per l’Italia di DICE, piattaforma con l’ambizioso obiettivo di rendere estremamente personalizzata e “magica” l’esperienza dei fan prima, durante e dopo gli eventi, siano essi dal vivo o in streaming. 

Ciao Tommaso! Innanzitutto, grazie per averci dato la tua disponibilità in un periodo delicato come questo. Sappiamo che sei al lavoro su più fronti e ringraziamo a nome della redazione chi, come te, in questo momento sta cercando di dare un contributo concreto alla ripartenza del mondo dello spettacolo, portando innovazione digitale e voglia di cambiamento. Inizierei parlando proprio di DICE e DICE Tv. È arrivato secondo te il momento di cambiare le regole del gioco cogliendo questa, seppur critica, “occasione”?

Assolutamente. Abbiamo lanciato DICE TV come risposta alla temporanea impossibilità di fare ciò che amiamo: far uscire la gente di più. DICE TV applica tutto quello che di magico DICE ha da offrire al mondo della musica live, ottimizzandolo per lo streaming. Ma DICE TV non vuole essere un trend momentaneo, l’obiettivo è che diventi uno strumento importante per fan e organizzatori. Ogni segnale punta al fatto che alla riapertura ci saranno capacità ridotte, la possibilità di mandare in contemporanea una performance live e in streaming amplifica il numero dei fan che possono vederla e di conseguenza il numero di biglietti venduti.

Per far funzionare un applicativo del genere, quanto è importante lo sviluppo di un ottimo software e quanto invece è importante sensibilizzare l’audience a un uso responsabile delle tecnologie digitali? Pensi che un pubblico come quello dei festival si adeguerà facilmente ai cambiamenti che ci apprestiamo a vivere?

In questo periodo abbiamo assistito a una scalata rapidissima della curva di adozione per tecnologie esistenti e nuove; applicazioni che avrebbero impiegato mesi se non anni per arrivare nelle mani delle massa ci sono arrivate nel giro di poche settimane. Quelle che la massa continuerà ad utilizzare sono quelle che risolvono un problema, vero. Nel periodo post ripartenza uno dei problemi sarà la capienza, lo streaming dà la possibilità di vedere l’evento a chi non potrà prendere il biglietto, magari trovandosi con amici e ballando insieme. Nel lungo termine lo streaming democratizzerà la musica dando accesso ai concerti più memorabili a coloro che geograficamente non hanno facile accesso alle performance dei loro artisti preferiti. La tecnologia fine a se stessa non serve a nulla, laddove invece venga applicata, con assoluto rispetto per l’utente, per migliorare una situazione, credo dovremmo considerare di accoglierla a braccia aperte. E sì, il prodotto ha un ruolo fondamentale, una interfaccia intuitiva e accattivante accelera l’adozione. 

Immaginiamo che la categoria artistica maggiormente colpita dalla mancanza di esibizioni dal vivo sia quella degli emergenti, o comunque quella delle produzioni indipendenti. Come pensi cambierà il loro approccio alla musica? Intensificheranno ancora di più la loro attività online? Le agenzie e i talent scout continueranno a fare le loro ricerche, o pensi che, nel clima di incertezza, si perderà un po’ attenzione nei loro confronti? 

Ne parlavo proprio in questi giorni con amici e colleghi. La mia sensazione è che gli stranieri non potranno venire in Italia per un periodo di tempo e che i nomi Italiani più importanti si giochino questo momento con cautela e quindi rimangono gli emergenti. Se avessi un’etichetta o un’agenzia oggi mi butterei a capofitto sugli emergenti creando format freschi per farli girare il più possibile. Il prossimo anno sarà magico: pochissimi soldi da spendere e un desiderio viscerale di vedere musica dal vivo, non escluderei il ritorno di Woodstock!

Domanda un po’ romantica. Quando sarà il momento di tornare ad abbracciarci sottopalco, pensi che le sensazioni e le emozioni saranno le stesse di sempre, o cambierà qualcosa? Ci sarà un po’ quella sensazione di aver superato la più grande difficoltà che la famiglia della musica abbia mai vissuto?

L’esperienza di questo momento storico è assolutamente individuale e varia abbondantemente tra individui. Io credo che ai primi concerti a cui andremo, gli artisti ci ricorderanno quanto tempo è passato da quando ci siamo visti l’ultima volta, i fan saranno carichi e inebriati dalle note e gli addetti ai lavori frulleranno per far sì che la ruota giri. Tutti saranno contenti di essere tornati ai loro posti e a fare quello che amano di più. Il post mortem avverrà per lo più a livello politico e di associazioni come è giusto che sia, mentre chi fa la musica e chi la ascolta andrà avanti.

Tralasciando un attimo il discorso lockdown, abbiamo voluto farti un paio di domande di carattere generale per i nostri lettori. Questo numero de L’Olifante è dedicato a “I GENERI”. È ancora utile e può avere un senso “etichettare”, secondo te, la musica che viene prodotta oggi e paragonarla a ciò che è stato? Come è stato possibile che un genere inusuale per il mercato italiano come l’Afro Beat degli I Hate My Village abbia riscontrato un così grande successo? Il segreto sta tutto nei “nomi” dei componenti del gruppo o c’è dell’altro?

I nomi sicuramente aiutano ad avvicinare il pubblico a un nuovo progetto, il fan poi però rimane se il prodotto è di qualità. Ci sono tanti esempi nella storia: Temple of the Dog, Audioslave, ChickenFoot, Them Crooked Vulture per nominarne alcuni che ho seguito personalmente. L’hype iniziale dietro al progetto era sicuramente creata dalle super star che lo hanno creato, in seguito i progetti hanno avuto (più o meno) successo perché il materiale era (più o meno) di qualità. Il genere credo sia un’esigenza sociale prima di tutto perché consente all’artista e al fan di connettersi a un macro livello. Ancora prima di sentire un artista, se fa Grunge gli dò una possibilità, se fa Trap non mi interessa. Mi piace tutto quello ha rappresentato il movimento Grunge, non mi allineo con quello Trap. Se però levi il concetto di genere e parli di arte, ecco che cadono i confini, e artisti come Dave Grohl possono spaziare tra generi per il puro godimento di farlo (e noi ringraziamo). Il problema è che il desiderio umano di appartenenza è troppo forte, quindi che vogliamo o no, il genere rimarrà sempre patrimonio dell’umanità.

Per concludere, ti chiediamo un consiglio per gli artisti che leggeranno questa intervista. Quand’è che i tempi possono dirsi maturi per fare un salto di qualità nella gestione delle proprie attività musicali, affidandosi a un’agenzia di booking e management di livello per poi calcare i palchi che contano? È tutta una questione di produzione, o anche di mentalità?

Una cosa che mi sono chiesto molte volte negli anni passati è come atleti del calibro di Kobe Bryant siano rimasti in cima per trent’anni, competendo a livelli assurdi, e altri giocatori con un talento comparabile siano svaniti nel nulla. La mentalità fa la differenza. Il grande Arrigo Sacchi espresse questo concetto nel modo perfetto che traduco dal dialetto: occhio, volontà e un pizzico di fortuna.

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