Tommaso Zanello, noto ai più come Piotta, antesignano della scena Hip Hop romana, è un artista e produttore a tutto tondo, che ha fatto della contaminazione un punto cardine della sua carriera. Lo abbiamo intervistato per approfondire diverse tematiche: il recente lavoro sulla colonna sonora di Suburra – la serie, il rapporto con la sua città e la condizione in cui attualmente versa il mondo dello spettacolo in Italia.

Suburra – Final Season è il titolo dell’ultimo album di Piotta, che raccoglie dieci brani originali realizzati appositamente per fare da colonna sonora all’atto finale di “Suburra”, la serie originale italiana Netflix, prodotta da Cattleya con Bartlebyfilm. Due anime che convivono in uno stesso disco, due mondi che s’incontrano e danno vita a qualcosa di mai sperimentato prima. L’essenza della contaminazione fra due realtà diverse che si incontrano.

Ho avuto l’onore di avere più di un brano nei film, in passato. Però non avevo mai fatto un commento sonoro o una canzone per una scena specifica. È stato motivo di orgoglio ma anche di ansia. Se uno ci tiene al proprio lavoro, ci tiene a dare il massimo. In più sapendo che la serie è distribuita in 190 Paesi, la platea possibile è così sterminata che l’ansia galoppa. Però è stata una sfida che ho voluto accettare.

Le storie narrate sembrano avere anticipato i fatti della cronaca romana più recente. 

È andata oltre. Un racconto profondo del lato oscuro dell’umanità. Parte senz’altro da elementi di cronaca, ma poi se ne allontana, come si allontana dal film del 2015 – diretto da Stefano Sollima e tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo.

Lo spettacolo e l’intrattenimento dal vivo sono fermi da più di un anno. Come stai vivendo questo momento?

Il blocco del lavoro dello spettacolo vissuto da spettatore mi intristisce. Da artista e produttore sono piuttosto preoccupato. Lo scorso anno ho perso il tour estivo e quello invernale. Siamo a contatto con un universo variegato, fatto non solo di artisti ma anche di professionisti diversi: penso ai tecnici, a chi fa booking, a chi si occupa di comunicazione e a tutte le professioni connesse. C’è un dramma in corso che a volte sembra di serie B rispetto agli altri. Il nostro mestiere è talmente vasto e complicato che le esigenze sono diverse, ma non significa che una è inferiore all’altra. Stiamo parlando di praticamente due anni di attività annullati, l’aspetto psicologico oltre a quello economico è determinante.

Pensi che il pubblico risponderà velocemente alla chiamata quando ripartiranno i concerti?

Anche il pubblico, che per tanto tempo non è andato ai concerti, magari ha perso l’abitudine e ha maturato la paura che ti fa dire “aspettiamo un altro po’”, ma quell’attesa è poi un altro elemento che frena la ripresa delle attività.

Che ne pensi del live streaming?

Se le piattaforme online sono un valore aggiunto al concerto, ben venga. Se si dovesse arrivare al punto di pensare di sostituire il live, allora butterei giù dalla torre lo streaming. Verrebbe meno il motivo principale per cui ho iniziato. In un anno in cui si è fermi, non ho problemi a chiudermi in studio. Però quando creo penso sempre al momento in cui poi mi esibirò fisicamente davanti a un pubblico. Il live è quella droga buona a cui non saprei mai rinunciare, non si può riprodurre la magia rituale di un concerto dal vivo, lo scambio di energie che solo il contatto umano può dare.

Il mercato musicale segue uno schema piramidale. Un artista internazionale ha un potenziale di pubblico pagante mondiale, e questo fattore lo piazza in cima alla piramide. Le realtà locali che prima vivevano grazie ai concerti con numeri di 300 o 400 persone, con lo streaming sarebbero tagliate fuori, perché in quel mercato i numeri che generano profitto sono più alti.

Parliamo del tuo ultimo videoclip, È ora di andare. Nel video, diretto da Glauco Citati, scorrono le scene più importanti dell’atto finale della serie. Anche tu sei protagonista del video. Ti senti a tuo agio di fronte alla telecamera?

Quando ero più piccolo, ai tempi dei primi video, anche con i Manetti Bros., mi buttavo sempre, interpretando più ruoli e stando sempre davanti alla camera. Oggi sono più riflessivo, complice anche l’età, e ho capito che la comunicazione è importante e, a volte, fare più cose può distorcere la percezione che l’ascoltatore ha di te. Se ho scritto un testo che non parla di me in prima persona, ma che racconta la via altrui, che sia un racconto inventato o una storia vera, non posso essere io a interpretarlo davanti all’obiettivo. È meglio coinvolgere un attore professionista che sappia interpretare quel personaggio, che possa valorizzare anche quello che è il messaggio, così come è stato per È ora di andare. Nel videoclip Maledetti quegli Anni Novanta, tratto dall’album Interno 7, c’ero io in prima persona nello storyboard, ma un “io” diciottenne. Quindi la scelta di far interpretare a un giovane attore, Luca Pulcini, il me stesso a 18 anni, con Alessio De Persio nei panni mio padre. Se avessi recitato io, saremmo sembrati due fratelli e non padre e figlio (ride, Ndr).

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